Cuori, quadri, fiori, picche… da piccolo ero estasiato ogni volta che,
assistendo mio padre al bordo del tavolo verde con lo stesso interesse di un avvocato che osserva il proprio assistito
sul banco degli imputati, osservavo quei quattro simboli che mescolati in due
colori ed abbinati ad un numero oppure a quelle lettere strane, catalizzavano
in maniera così coinvolgente l’attenzione di tutti coloro che erano seduti al
tavolo, e di chi come me osservava dall’esterno.
Il luogo era poco più che una cantina, lo era stato
di certo fino a poco tempo prima, poiché le pareti ancora colorite di uno
sbiadito viola vinaceo facevano da cornice ogni volta ad interminabili sfide
condite da prese in giro, sfottò, lezioni da professore su come si debba o non
si debba giocare. Tutto ciò mi metteva sempre allegria, mi divertiva anche
vedere come delle persone distinte potessero infervorarsi tanto per una giocata
sbagliata, e sebbene il posto non fosse salubre (allora ancora non vigeva
l’obbligo di non fumare nei locali aperti al pubblico), ogni volta ci tornavo
volentieri con entusiasmo a far compagnia a mio padre
“Scala quaranta” si chiamava quel gioco, anche se soprattutto all’inizio,
più che il gioco, era proprio quel sapore di sfida accanita ma amichevole ad
attirarmi, in cui si fondevano l’opportunità che arrivasse la carta giusta ed
il sapere utilizzare bene quelle che si avevano a disposizione. Mi divertivo un
mondo quando sentivo qualcuno sbraitare: “Ma come cavolo fai a giocare quella
carta, lo hai fatto vincere!”, sorridevo, prima di tornar serio ed abbassare lo
sguardo se l’autore della sfuriata involontariamente rivolgeva lo sguardo dal
mio lato, sorridendo una volta placatasi la piccola rabbia con la quale aveva
condito, per enfatizzare ma senza avere una reale cattiveria, la ramanzina al
compagno di giochi.
Era abbastanza
comune, in quella cantina, far volare dei paroloni volutamente esagerati, di
certo non era la posta in gioco di poche migliaia di lire a far fare ciò,
tantomeno la rivalità tra i partecipanti, poiché si trattava di un gruppo di
amici che regolarmente ridevano, scherzavano e si divertivano, non solo al
tavolo verde. Ma allora perché alzare i toni, alzare il livello di volgarità
delle discussioni? Era per me un mistero inspiegabile, e pur non gradendo, la
cosa non mi spaventava, al contrario suscitava in me una sana curiosità
mescolata ad una sincera attrazione. Ogni volta che tornavo a casa, quasi come
un rito, la richiesta era la stessa:
“Papà, insegni a
giocare anche a me?”. Mio padre mi guardava e sorrideva, sapeva bene che
l’ambiente che frequentava non era per nulla pericoloso, ma sapeva benissimo che
i giochi di carte, le lotterie, ed in generale tutti i giochi dove insieme
all’abilità (in quelli che la prevedono) hanno tra le loro componenti l'aleatorietà,
sono soggetti a rischi, così come lo sarebbero le speculazioni in borsa o gli
investimenti nel mercato immobiliare, e lui per quanto non volesse opporsi ai
legittimi desideri di un bambino, desiderava allo stesso tempo fare in modo che
l’approccio a questo mondo potesse essere quanto più possibile cauto, sano, accertandosi
che il figlio non si dovesse trovare ad affrontare, se questo momentaneo
interessamento fosse sfociato poi in una passione, in situazioni spiacevoli e
più grandi di ciò che era in grado di gestire, come un accanimento: non sarebbe
riuscito a perdonarselo. Mio padre era anche consapevole che, così come era
riuscito lui a non caderci, nonostante le sue debolezze e l’essere cresciuto in
un tempo in cui nessuno gli aveva fatto da guida, anche il figlio sarebbe stato
in grado di coltivare le sue passioni in maniera sana e responsabile, a
prescindere da quali fossero anche con il gioco delle carte o altre che non
vengono solitamente riconosciute come “sane”.
In tal senso, una
frase mi ha colpito e negli anni mi è sempre rimasta impressa: “Ricordati che
la carta è puttana!”